Enzo Mari

Enzo Mari ha dimostrato, nel corso di una carriera lunga oltre mezzo secolo e tutt’ora molto vivace, come il talento si può affinare nella pratica quotidiana anche stando lontano da scuole e accademie. La sua esperienza creativa è da molti anni un riferimento non solo per il design, ma anche per l’architettura, con indicazioni che coinvolgono la cultura visiva in senso generale. Per questo Tracce ha voluto ascoltare dalla sua viva voce le considerazioni su uno scenario che vede l’espressività andare oltre barriere e steccati, stabilendo ad esempio nuovi ponti fra design e architettura. Mari non solo ha concepito oggetti di uso quotidiano, alcuni dei quali hanno rivoluzionato l’idea stessa del design contemporaneo, affermandosi a livello internazionale fuori dai tradizionali schemi star system di settore, ma ha da sempre lanciato dei messaggi utili per chiunque svolge una professione creativa. Tracce lo ha quindi incontrato in occasione della presentazione del libro “25 modi di piantare un chiodo”, autobiografia che, in sintonia con la sua personalità, è prima di tutto un racconto di emozioni che diventano creatività allo stato puro. Preziosi spunti di analisi tanto per un progettista quanto per un architetto.

Lui stesso inizia il nostro dialogo con una affermazione chock, esente però da intenti provocatori: “Di me si scrive che ho fatto qualche oggetto eccezionale. Se questo corrisponde al vero, è forse perché non sono mai andato a scuola”. C’è tutto Mari in una dichiarazione del genere. Eppure lui è considerato un “maestro” del design mondiale: sublime contraddizione per chi rifugge agli ordinamenti “scolastici”! Il libro, curato da Barbara Casavecchia, nel sottotitolo recita: Sessant’anni di idee e progetti per difendere un sogno. Ma quale è stato il sogno di un giovane di famiglia modesta, anzi modestissima, privo di studi accademici alle spalle, che ha saputo però eccellere? “Ho passato la mia vita a fare progetti, più di duemila fino ad oggi, ma credo di non sapere ancora cosa sia il design. So di non sapere, come diceva Socrate. E continuo ad aver voglia di conoscere, ad appassionarmi alla ricerca sulla forma e sui materiali”. Piantare chiodi: lo faceva anche il protagonista del film di Ermanno Olmi “Centochiodi”, che dichiarava appunto, crocifiggendo i libri, che la cultura non può essere solo quella che ci giunge dai piani alti.

“La vera qualità, la cultura nasce dalla fatica, dal lavoro. Dall’applicazione costante e sensibile delle esperienze, che non sono il frutto di chissà quale intuito, della cosiddetta creatività, ma di un metodo che si assimila nel tempo. Di veri principi l’arte ne elaborati pochissimi nel corso della storia e sono quasi tutti riconducibili alla Grecia Classica. I romani li conoscevano e li hanno fatti propri. Nel Medio Evo sono state le cattedrali e la cultura artigiana che ci girava attorno a darci dei valori forti e universali. Il Rinascimento ha guardato ancora alla Grecia e ha prodotto alcune novità di rilievo. Ma non molte. La questione non è la quantità, ma la qualità. Dopodiché ben poche cose possono essere annoverate come sostanziali evoluzioni. Il problema è stata anche la spasmodica ricerca di essere innovativi, termine e concetto quanto mai deleterio. Esiste molta più innovazione ancora oggi nel Partenone di Atene (basta saperlo osservare e quindi coglierlo) che in tutto quanto ha prodotto il design. Il fatto, purtroppo, è che non sappiamo o vogliamo guardare a questa reale potenzialità innovativa. Ai ragazzi che vorrebbero diventare dei creativi, dico che è meglio fare i contadini. Non voglio prenderli in giro o dimostrarmi superiore a loro: desidero farli riflettere sul fatto che nella civiltà contadina c’è tanta di quella saggezza e spirito creativo da poter attingere positivamente per chissà ancora quanto tempo! Ma c’è di più: forse solo guardando lì, ad un saggezza oggi così sottotraccia ed anche disprezzata, possiamo salvare il pianeta e quindi anche noi stessi”.
Potrebbero apparire tesi radicali, e forse lo sono. Ma la riflessione di Mari è ben argomentata e diventa incalzante quando si passa dalla teoria alla pratica: quando si parla di committenza, di produzione, di commercializzazione delle idee.

“Per quanto riguarda la committenza e l’industria, il problema è che oggi tutte le grandi aziende finanziano il design solo per ottenere il più veloce e il più elevato ritorno economico: io non sono contro il meccanismo industriale in sé, ma contro la sua degenerazione, che di fatto chiude le porte non solo ad una reale sperimentazione ma al dichiarare e promuovere la qualità della vita. Per questo ho parecchie difficoltà a lavorare per un mercato così strutturato. Io amo lavorare solo per chi dimostra vera passione per il progetto. Come si fa a riconoscere chi ha questa passione? Prima di tutto chiedendosi se quel determinato committente metterebbe nella propria casa l’oggetto progettato. Un progetto è innovativo quando porta una novità nella tecnologia o nel linguaggio. Questo risultato si raggiunge lavorando all’interno di un’azienda, perché per fare un buon articolo si deve sbagliare, rifare. Devi sbatterci la testa sopra per anni. Con queste premesse, sfido chiunque a creare una sedia nuova e sfido chiunque a contestare quello che sto dicendo. Per far design occorre un bagaglio di conoscenze, oltre che grande esperienza: a differenza della fotografia o della scrittura, che si possono esercitare con passione anche in solitudine, il design si nutre di progetti realizzati con le aziende”.

Molto critico nei confronti dell’attività dei colleghi (ma possiamo ancora chiamarli così?!), Mari non transige su ciò che ha caratterizzato il design in anni recenti: “Se non si parte da chi l’oggetto lo utilizzerà concretamente è impossibile fare qualcosa di decente. Ho visto oggetti che solo per le loro dimensioni non potrebbero mai entrare in una normale casa. Inoltre ritengo vada recuperata la cultura materiale, l’esperienza del fare, la pratica della mano che disegna sotto la guida della sensibilità intellettiva”. In questo senso c’è un collegamento ideale fra esponenti di spicco di una generazione apparentemente “anziana” e che invece ora più che un tempo ha la voglia di parlare, mettersi in gioco, invitare alla riflessione: il già citato Olmi, ma anche Carlo Petrini con la sua creatura “Terra Madre” e, appunto, Enzo Mari. “Fin dalla mia adolescenza mi sono appassionato a concepire, progettare ma soprattutto realizzare oggetti e soluzioni che contribuiscano ad aumentare la qualità della vita. Questo passando attraverso mode, correnti di pensiero, evoluzione dei costumi e tendenze che hanno cambiato, e non sempre in positivo, il modo di concepire la realtà. Per me progettare è una condizione emozionale, e allo stesso tempo assolutamente razionale, che mi accompagna fin da quando ero ragazzo e mi ha spinto a migliorarmi continuamente per migliorare ciò che mi circonda. Ho sempre guardato con estremo rispetto al lavoro degli artigiani, dove la fatica del fare si compensa con la soddisfazione del realizzare con le proprie mani qualcosa di bello, di positivo, di utile. In un rapporto non alienato tra uomo e oggetto fabbricato, con legami forti a livello di pratica e autonomia di pensiero”.

Così come ben descritta è la tensione di Enzo Mari nel realizzare quella che lui stesso definisce un’utopia democratica nel disegnare oggetti belli e utili ma alla portata di tutti. Il lettore scorrendo le oltre 140 pagine del libro “25 modi di piantare un chiodo” troverà molte frasi dove Enzo Mari parla di se stesso e si descrive con estrema modestia e ironia. Anche Escher, il grande artista grafico olandese, soleva sottolineare che a scuola non era mai stato un granchè e si meravigliava moltissimo che pur non capendo tanto di matematica i suoi disegni venissero usati per dimostrare difficili teoremi. E’ estremamente piacevole per chi legge il racconto della vita e delle esperienze di Enzo Mari, scoprire che “Progettare è una pulsione insita nell’uomo come l’istinto di sopravvivenza, la fame o il sesso”.

Articolo a cura di Daniele Bianchi