“Architettura e design (e anche la città) sono la stessa cosa, nel senso che sono parti di un unico plancton, in continua evoluzione e trasformazione”
Architetto e design, Andrea Branzi è fra i più attenti indagatori delle novità che il XXI Secolo sta introducendo nel mondo del progetto, in particolare nel passaggio da una modernità forte e concentrata a quella odierna debole e diffusa
Come vede Andrea Branzi l’evoluzione del design contemporaneo caratterizzato sempre più dalle dinamiche dei mercati e della produzione seriale e, quindi, esistono ancora spazi per la creatività senza rinunciare alle indispensabili leggi dell’industria?
Non condivido la vostra ipotesi che vi sia oggi una ferrea influenza dei mercati e della produzione di serie; mi sembra una ipotesi un po’ retorica. In realtà il mercato oggi richiede tutto e il contrario di tutto ed è frazionato in tanti mercati di nicchia; l’industria quindi, di fronte a questa grandissima complessità, non sa più che cosa fare, è in crisi. Anche la produzione di grande serie è in crisi, e semmai prevalgono le produzioni di piccola serie destinate a singoli frammenti di mercato. In questo contesto la creatività (paradossalmente) è diventata l’unica maniera per operare sul mercato globalizzato, dove sembra che tutto sia già stato progettato; gli spazi vuoti sono infatti oggi costituiti soltanto dai territori dell’immaginario, in grado di proporre nuovi bisogni e nuovi pensieri. Il problema piuttosto è quello della qualità di questa creatività diffusa, che sembra cambiare tutto, ma in realtà non cambia niente.
Anche nel design esiste la tendenza di personalizzare verso figure di riferimento buona parte della produzione, quasi che la firma abbia un valore superiore al progetto stesso. Come giudica lei questo fenomeno e le influenze dei media rispetto alla creatività?
L’economia della griffe è sempre esistita; ma non mi sembra un problema. Potrebbe anche essere una garanzia. Del resto se i consumi rappresentano oggi una cultura sociale, devono essere firmati come tutti prodotti dalla cultura. Non sono favorevole all’anonimato; nel mio lavoro, fatto di sperimentazione e di ricerca espressiva, è assolutamente indispensabile firmare ciò che realizzo. Del resto mi sembra che oggi ci sia spazio sul mercato sia per i no-logo, che per i brand. Solo gli strumenti (o i prodotti che vogliono sembrare tali) non hanno firma.
Come si è evoluto il suo pensiero creativo, in relazione agli sviluppi e al progresso industriale e alle rinnovate esigenze estetiche della società?
Il mio pensiero creativo si è evoluto in rapporto al cambiamento dei tempi, ma ha sempre seguito un’unica traccia, che è quella (da una parte) di lavorare all’idea di una architettura astratta, nel senso di una architettura che supera i limiti di disciplina che opera costruendo scatole figurative, per diventare parte di una semiosfera immateriale fatta di informazioni, servizi, micro-climi, suoni e luci (da No-Stop City a Agonica).
Dall’altra parte lavorare a un design che opera attorno a oggetti che mettano in evidenza la loro natura delicata, misterica e animista, per creare un habitat ricco di elementi antrologici, e non soltanto funzionali e utili. Presenze culturali che sono sempre esistite nella casa dell’uomo dai tempi più antichi. Del resto per migliorare la città occorre migliorare le piccole cose (soprattutto quelle apparentemente superflue); perché la città è oggi un insieme di piccoli oggetti, e la sua qualità complessiva è costituita dagli spazi interni (e non più dai monumenti).
Quali sono i materiali, le tecniche e le forme che in questo momento le interessano maggiormente e sulle quali sta puntando il suo lavoro teorico e progettuale?
Negli ultimi anni ho sempre fatto collezioni dedicate ai fiori, che sono una presenza indispensabile nell’ambiente umano. Come gli ikebana giapponesi che sono il vero centro della casa; e l’architettura è soltanto un alone che viene costruito attorno a loro. I fiori sono una presenza antichissima, consolatoria e benefica, che il design moderno ha in gran parte dimenticato, o sottovalutato, perdendo quindi quelle radici antropologiche.
1/2 – Collezione “Uomini e Fiori” prodotta da Design Gallery-Milano
3 – Collezione “Enzimi” prodotta da Metea
Come si inserisce la collezione “enzimi” all’interno del corpus generale del suo lavoro e quali sono stati i fattori a cui lei si è ispirato?
La collezione “enzimi” si colloca all’interno di questi interessi, verso i fiori da una parte, e verso gli spazi interni dall’altra; si tratta infatti di vasi dove gli “spazi interni” sono più importanti della forma esterna. In questo modo il vaso e il fiore diventano la stessa cosa.
Quali sinergie possono scaturire da una collaborazione e da attività parallele fra architettura e design?
Architettura e design (e anche la città) sono la stessa cosa, nel senso che sono parti di un unico plancton, in continua evoluzione e trasformazione. L’architettura è per sua natura molto rigida, quindi per seguire i processi di ri-funzionalizzazione deve trasformare i suoi spazi interni attraverso l’uso dei sistemi di interior design.
Uno dei compiti che oggi la cultura del progetto ha davanti è proprio la verifica dei vecchi dispositivi funzionali, legati a vecchie tipologie storiche (teatri, musei, abitazioni) ormai superati.
6 – Collezione “Enzimi” prodotta da Metea
7 – Collezione “Blister” prodotta da Gallery-Mila
Articolo a cura di Giuseppe Allegro