Zaha Hadid: l’architettura neo modernista
Zaha Hadid ci parla sul tema dell’architettura neo modernista, che riflette tutte le dinamiche della contemporaneità. Varcare i confini dell’architettura urbana pur restando coerente con il territorio e l’atmosfera paesaggistica. » questa l’ambizione che ha da sempre guidato la maturazione progettuale di Zaha Hadid, il primo architetto donna a vincere, nel 2004, il premio Pritzker (il nobel per l’architettura). Un’ambizione che oggi ha acquisito le forme fluide ma perfette dei suoi capolavori internazionali, un connubio di estetismo visionario, innovazione e continuità territoriale che si ripropone in mille espressioni differenti.
Un percorso creativo fuori dagli schemi
Laureata alla prestigiosa Architectural Association nel 1977, appassionata discepola di insegnanti trasgressivi come l’olandese Rem Koolhaas, Zaha Hadid dovette battagliare non poco per convincere il mondo che i suoi avveniristici progetti erano in realt‡ concreti simulacri dell’evoluzione architettonica. Causa dell’iniziale reticenza, un estro creativo sempre in zona franca, oltre i limiti del conformismo, sciolto dai vincoli di categoria, sempre pronto a trovare nuove argomentazioni per raccontare un luogo, una società, una visione.
Tutti gli architetti devono lottare per affermarsi in un panorama tanto vasto, complesso e concorrenziale, ma Hadid ha faticato più di altri e certamente non per carenze professionali. Il suo singolare rifiuto di scendere a compromessi stilistici che non le appartengono ed il suo temperamento da uragano, nato dall’esigenza di emergere in un settore ancora per certi versi molto maschile, si sono rivelati allo stesso tempo il punto debole ed il punto forte del suo successo.
Ma Zaha Hadid era una pensatrice libera ben prima di diventare un architetto evoluto. Nata nel 1950 in una Baghdad più liberale, democratica e secolarizzata di quella che conosciamo oggi, trovò nella figura del padre, co-fondatore del Iraq National Democratic Party e leader del Progressive Democratic Party, il parametro per misurare le proprie ambizioni per il futuro, sebbene non in ambito politico ma architettonico. Come suo padre, lei sapeva che avrebbe potuto dare molto per il proprio paese, ma in Iraq più che altrove una donna non aveva alcuna opportunità concreta di emergere nel settore dell’architettura. Ecco perchè Hadid divenne figlia adottiva della Londra progressista degli anni ‘70.
Una biografia certamente eloquente delle radici culturali e personali dell’architetto, da cui sono germogliati il carattere e la creatività che tutt’oggi la distinguono sulla scena internazionale.
“Pare che io sia nata per superare costantemente le frontiere”
Così esordisce l’architetto alla nostra intervista: “l’ho fatto lasciandomi alle spalle il mio mondo, il Medio Oriente, per raggiungere questo fantastico sconosciuto che per me era l’Europa; l’ho fatto ancora opponendomi, alla corrente di maggioranza degli architetti occidentali di rappresentare nelle realizzazioni il fallimento dell’ottimismo modernista degli anni pre-sessantottini; lo faccio ancora oggi, giorno dopo giorno, nel mio laboratorio progettuale. Credo che il transnazionalismo concettuale, prima ancora che reale, sia la chiave per comprendere lo sviluppo del mio lavoro”.
Oltre al suo transnazionalismo concettuale, sappiamo che una volta integrata a Londra, ha incontrato una persona che in qualche modo l’ha aiutata a comprendere meglio il suo orientamento stilistico e professionale. Si tratta di Rem Koolhaas. Lei stessa ricorda come fondamentale l’esperienza all’Architectural Association e successivamente nello studio di Koolhaas. “L’Architectural Association è stato per me il posto ideale in cui coltivare le mie ambizioni in totale autonomia. Gli insegnanti che ho incontrato rifiutavano come me il post-modernismo kitsch che andava per la maggiore. Come i serpenti, cambiavano la loro pelle stilistica per dare vita a sempre diverse espressioni di nuovo modernismo, con concezioni più sofisticate della storia e dell’identità umana. Loro pensavano ad un’architettura che incarnasse il caos della modernità nelle sue diverse forme. Koolhaas, tra tutti gli insegnanti, è colui che maggiormente ha contribuito a disegnare l’architetto che sono. Lui che ha portato in superficie l’idea che conservavo nel profondo di un’ espressione architettonica neo-moderna. Quando poi mi sono laureata e Koolhaas mi offrì di diventare la sua partner professionale nell’ Office for Metropolitan Architecture, lui capì subito che quanto aveva seminato nel ego, era già germogliato in una creatività alla quale nemmeno lui riusciva a dare una definizione. Mi descrisse come un pianeta che gira vorticosamente intorno alla propria orbita. Quel che successe dopo si sa, io non rimasi nel laboratorio a lungo perchè sentivo di dovermi liberare da qualsiasi vincolo che potesse limitare il mio estro. Ero come una interpretazione illimitata di significati, senza alcun controllo, in apparenza”.
Essere donna sembra non abbia mai pesato troppo sullo sviluppo della carriera professionale di Zaha Hadid, anche se esiste una precisa consapevolezza delle difficoltà che una donna vive per emergere. “Fateci caso: all’università ci sono, in media, metà studenti e metà studentesse. Poi, quando comincia la professione, le donne quasi spariscono. Diventano spesso collaboratrici di mariti o compagni, lavorano in grandi studi dove finiscono però spesso in un ruolo marginale rispetto ai colleghi maschi. E magari, a vincere il Pritzker, sono i mariti o i compagni: è successo con Robert Venturi. La giuria si è completamente dimenticata di Denise Scott Brown, sua compagna e collaboratrice insostituibile”.
Per passare alle componenti emozionali del lavoro, si nota come Zaha Hadid sa trasmettere visivamente il senso di sconfinamento che rende inconfondibile il suo stile architettonico.
“Per le mie realizzazioni punto sempre alla qualità più che all’appariscenza. Da questo punto di vista sono piuttosto classica, credo che la personalità delle mie strutture dipenda da quello che io riesco a far assorbire loro del mio carattere e della mia creatività. In questo caso fare l’architetto è un po’ come fare lo chef: tutti conoscono gli ingredienti della pasta al ragù, ma un bravo chef ne aggiunge sempre uno che gli altri non potranno mai imitare, il proprio tocco personale. Allo stesso modo io elaboro i miei progetti ed il sapore, generalmente, è inconfondibile. Nel mio modo di progettare si sovrappongono le mie tante anime. Posso dire che dal mondo arabo potrebbe forse arrivare il mio amore per la geometria, per tutto quello che è matematico”.
La visione delle opere mostra una predilezione per quelle che la stessa Hadid definisce linee fluide. Questo stile si contrappone ad una certa appariscenza tipica di buona parte dell’architettura contemporanea. “Le linee fluide non sono altro che l’adattamento della forma ad un nuovo concetto di spazio più dinamico, flessibile e alternativo. Una prospettiva geometrica multipla e frammentata, che rivela l’effettiva opinabilità dei numeri e delle formule. Singolare che questa affermazione provenga da una diplomata in matematica, vero? Eppure io credo che la fluidità sia la forma che meglio rappresenta il caos dell’età moderna a cui accennavo prima. Per quanto riguarda l’appariscenza dell’architettura contemporanea, potrei forse sembrare irritante, ma ritengo che l’esibizione delle forme e dei materiali corrisponda ad un monolitico vuoto espressivo.”
Dal Vitra al Weil am Rhein
Sappiamo che Zaha Hadid rifiuta qualsiasi definizione categorica del suo stile. Eppure esistono delle chiare trasformazioni che il suo stile ha subito negli anni di progettazione. Basta vedere come l’ espressività si è modificata dal progetto per il Vitra a Weil am Rhein ad oggi.
ìll progetto Vitra ha comportato una riflessione profonda, per certi versi innovativa, in merito al rapporto con il paesaggio circostante: si trattava di un contesto di enormi fabbricati agricoli. Piuttosto che progettare l’edificio come un oggetto isolato, sviluppai il bordo esterno della zona adiacente, definendo lo spazio piuttosto che occupandolo. In quest’ottica, la costruzione si presentava con un carattere ermetico a uno sguardo frontale, rivelando le sue zone funzionali solo da un punto di vista perpendicolare. L’intero edificio era movimento, esprimeva la tensione dell’essere in allerta e la potenzialità ad esplodere nell’azione in ogni momento. Fu la prima occasione in cui avvertii concretamente la sinergia tra spazio e tempo. L’esperienza di Weil am Rhein è stata una vera e propria lezione per le mie sperimentazioni successive, in cui ho sempre puntato allo sviluppo della continuità visiva tra ambiente ed edifici.”
E lo stesso insegnamento è valso anche per la progettazione del Museo di Arte Nuragica di Cagliari, in cui Zaha Hadid si è trovata a confrontarsi con un paesaggio tanto antico quanto originale.
“Si tratta di una costruzione che supera l’ordine geometrico per meglio conciliarsi con le caratteristiche paesaggistiche veicolate anche dalla mostra stessa.Ne è nata una struttura emergente, una rete di percorsi la cui armonia di forme si estende all’ambiente, inventando nuovi skyline, nuovi paesaggi artificiali e innovative forme terrestri, generate dalla secolare madre terra di quei luoghi. Quei paesaggi emergenti inabissano letteralmente il visitatore e sfuocano i confini fra spettatore e spettacolo. Sono molto contenta di questo progetto e di lavorare in Italia, anche se bisogna essere…molto pazienti! Spesso in Italia si va infatti per le lunghe, ho molti cantieri aperti anche ora. Vorrei iniziare a vedere le opere non solo sulla carta.
Ogni progetto ha una sua personale situazione di stallo. Credo dipenda dal fatto che in Italia non è successo niente per tanto tempo, l’architettura non rientrava nelle questioni di interesse pubblico. Adesso, invece vedo tanto entusiasmo, ma dalle intenzioni ai fatti il passaggio è lungo. Gli architetti devono fare un doppio lavoro. E’ come se in Italia alcuni avessero paura di tutto ciò che è nuovo, evitino il cambiamento, lo allontanino. Quella della tradizione come limite è un alibi, anzi per noi architetti Ë bellissimo lavorare nel vostro paese perché c’è un grande equilibrio tra quello che si dà e quello che si riceve. Credo che la funzione dei grandi progetti architettonici sia proprio quella di creare movimento, fermento. Dovrebbe essere così ovunque. Soprattutto in un Paese dalle straordinarie tradizioni culturali e artistiche come l’Italia”.
Zaha Hadid Ë attualmente particolarmente impegnata in Italia in opere che rientrano direttamente nella progettualità per MIlano Expo 2015. Alcune opere sono già in fase di attuazione, altre sono focus di un dibattito che Ë allo stesso tempo professionale e socio-urbanistico.
ìMilano è una città ricca di eventi e ci vuole del nuovo anche in architettura. Forse proprio a Milano pi˘ che in altri contesti, oggi emerge come il compito dell’architettura è di trasformare le città in centri di nuova vita, ricchi di culture diverse, come ha fatto Londra. La complementarietà di esperienze e di stili è un modo di espressione della nuova citt‡. Per quanto riguarda la riqualificazione della zona della ex Fiera, dove sono impegnata da tempo, io credo che i grattacieli previsti in questa area siano ben collegati con Milano e danno un profilo nuovo alla città. Il rispetto per il contesto non sta nel ripetere le stesse cose che ci sono già ma deve delineare nuove forme di abitare e nuove condizioni di vita. Inoltre non bisogna sviluppare una fobia contro le cose straniere. Con rispetto per la storia urbana, naturalmente”.